Sconfiggere il “Divide et impera”

«Divide et impera», ammonivano i Romani: separa ciò che dovrebbe restare unito, frantuma ciò che trae forza dall’insieme, e governerai senza fatica. Quel motto, antico e spietato, respira ancora. Si insinua nei pensieri e nelle relazioni, nelle istituzioni e — più dolorosamente — nelle pieghe della Chiesa. Ogni volta che un cuore si chiude, che una comunità si incrina, che il sospetto soffoca l’ascolto, quella voce vetusta torna a sussurrare: dividi, e regnerai.

La storia umana ne ha dato prova molte volte: una realtà divisa è una realtà vulnerabile. I regni che hanno ceduto all’invidia interna sono caduti prima di affrontare il nemico esterno. Le civiltà che hanno sacrificato la coesione sull’altare delle ambizioni personali hanno visto erodere le proprie fondamenta. Anche l’alleanza più forte, se lacerata al suo interno, perde potere e prestigio. La divisione mina la fiducia, disperde le energie, spegne la voce comune.

E sul piano spirituale, la fragilità si fa più insidiosa: dove la comunione si spezza, lo Spirito si ritira; dove attecchisce la rivalità, la Grazia smette di fluire. Satana non ha bisogno di demolire la chiesa: gli basta incrinarne l’unità. Non occorre abbattere l’edificio, se si possono sciogliere i legami che tengono insieme le pietre.

Cristo, invece, alla vigilia della croce ha pregato: «Che siano una cosa sola, Padre, come Tu in Me e Io in Te, perché il mondo creda» (Gv 17,21). Non lirica consolatoria, ma urgenza evangelica: l’unità non è ornamento liturgico, è condizione perché il Vangelo appaia credibile. Se siamo frantumati, il mondo non scorgerà Dio; se siamo una cosa sola, rifletteremo l’Amore eterno del Padre e del Figlio. Questa unità non è uniformità sterile: è armonia viva di diversità riconciliate. Non richiede identici pensieri, ma passi concordi nonostante le differenze, certi che vi è un solo Corpo, un solo Spirito, un solo Signore.

Paolo, più di chiunque altro, ha scolpito tale visione: la Chiesa è un corpo in cui ogni membro possiede una funzione distinta, e nessuno può dire all’altro: «Non ho bisogno di te» (1 Cor 12). Se un membro soffre, tutto il corpo partecipa al dolore; se una sola parte si spezza, l’intero organismo ne avverte il peso. L’unità, dunque, è anzitutto atto spirituale: l’umile decisione di non lasciarsi lacerare, di resistere all’orgoglio che isola, di perseverare nel cammino condiviso anche quando costa fatica.

La prima comunità lo comprese. Nel giorno di Pentecoste i discepoli erano tutti insieme nello stesso luogo (At 2,1): non mera vicinanza fisica, ma convergenza di desideri, sete comune, preghiera unanime. Là discese il fuoco: non sull’oratore più forbito né sul più irreprensibile, ma su un popolo raccolto nell’unità. Lo Spirito non dimora dove ciascuno corre per conto proprio; abita dove le vite si intrecciano.

Gesù lo affermò con limpidezza: «Una casa divisa non può reggere, un regno diviso va in rovina» (Mc 3,24-25). Quanta energia dispersa in dispute interne, mentre il mondo attende di scorgere una Chiesa che ama, accoglie, perdona e cammina! Quante occasioni dissipate, quanta luce estinta perché abbiamo innalzato muri più alti delle nostre mani tese!
Una Chiesa divisa è come uno specchio infranto: non può restituire un’immagine intera. Chi vi si riflette non riconosce un volto, ma una somma di frammenti. E quando il mondo guarda dentro una comunità lacerata, ciò che vede è confusione, non rivelazione. Solo l’unità può offrire al mondo un’immagine limpida del Volto di Cristo. Solo un corpo unito riflette l’Amore di Dio nella sua coerenza e bellezza.

L’unità non è un compromesso al ribasso: è la nostra identità, il sigillo della presenza di Dio in mezzo al Suo popolo. Non sgorga dalla pura somiglianza, ma dalla comunione nello Spirito; non si edifica con strategie umane, ma con docilità alla Grazia. Forse oggi, nel frastuono che ci circonda, tornare a quella preghiera accorata di Gesù è la rivoluzione più necessaria. Che siamo uno: non per apparire forti, ma per risultare veri; non per trionfare, ma per amare; non per assecondare lo sguardo del mondo, ma per rendergli visibile che Dio è Amore, e che l’Amore, nella sua verità più alta, non si divide mai.